Negli appunti vengono analizzati diversi brani della prosa italiana in funzione del significato e del valore del testo.
Storia della lingua italiana
di Gherardo Fabretti
Riaasunto del testo " Attraverso la prosa italiana ". Nel riassunto vengono
analizzati diversi brani della prosa italiana in funzione del significato e del
valore del testo.
Università: Università degli Studi di Catania
Facoltà: Lettere e Filosofia
Esame: Storia della lingua italiana
Docente: Gabriella Alfieri
Titolo del libro: attraverso la prosa italiana
Autore del libro: Pier Vincenzo Mengaldo
Editore: Carocci
Anno pubblicazione: 20041. I tre anelli e le fedi - Anonimo -
Il corpus primitivo del Novellino è databile all'ultimo decennio del Duecento. La presente novella o
parabola, insigne se non altro per ragioni etico – culturali, compare solamente nella Vulgata. Trascurando
una solo affine storia orientale, la parabola ha probabilmente origine negli ambienti ebraici di Spagna.
L'intenzione del brano è nobilmente didattica, quasi una parabola evangelica, di cui ripete la struttura di
racconto nel racconto: di conseguenza i personaggi sono ridotti al minimo, non definiti psicologicamente e
soprattutto agiscono in uno spazio ristretto, per nulla caratterizzato da elementi di realtà e secondo una
temporalità complessa, non articolata, che tende a correre rapidamente dall'inizio allo svolgimento della
storia.
Lo stile è un estremo di semplificazione e sobrietà, sia nella sintassi spintamente paratattica sia nel lessico,
che più limitato non potrebbe essere, dando luogo ad un numero di replicazioni altissimo per la brevità del
testo. Le poche subordinate sono o implicite e rapide (avendo, pensando, vedendo, udendo) o elementari, per
lo più affidate al che relativo o dichiarativo, così da promuovere uno sviluppo non in profondità ma in
orizzontale. Quanto alle replicazioni, possono coinvolgere segmenti interi, oltre alla già segnalata fra rubrica
e inizio.
Stile primitivo ma orchestrato a puntino, come si vede soprattutto dai due periodi di 2 – 3, parallelistici
concettualmente ma chiastici per l'ordine dei significanti (la giudea...la mia; la saracina ...la giudea). E
orchestrato abilmente in funzione del messaggio. Il padre (in cui si trasforma autorevolmente il giudeo) che
è la parola più ripetuta dell'aneddoto (4 7) attraverso 'l padre loro 9 diviene Il Padre di sopra 11 e i figliuoli,
pure ricorrenti (4,8) coi loro sostituti pronominali, diventano li figliuoli, ciò siamo noi, vale a dire l'umanità.
In altre parole il padre di cui anrra il giudeo è figura di Dio, come i figli dell'umanità. Sotto questa luce
molte delle ripetizioni censite più sopra prendono altro valore dal mero sintomo di primitivismo di questa
prosa, o da un uso della retorica che ne predilige in sostanza le figure di accumulazione. La scena è così
essenziale, rapida, e insieme folta perché mette in azione una verità (quella profonda del non avere certezze)
che non ammette soste o digressioni o accessori. E l'insistenza sui verba dicendi ci comunica l'importanza
della parola per affermare una saggezza che è del racconto esemplare come del dialogo, e che rovescia,
secondo uno schema frequente nella novellistica antica, una trappola un una vittoria.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 2. Dante Alighieri – L'apparizione di Beatrice
Questo secondo capitolo è l'inizio narrativo della Vita nuova. Notiamo anzitutto molte citazioni latine, di
sapore biblico e o meno: sia sintagmaticamente sia paradigmaticamente Dante congiunge a conferire autorità
alla sua prima prosa, la voce del Vecchio e del Nuovo Testamento a quella dei classici pagani, rappresentata
soprattutto dal più grande di loro, Omero.
Per altro verso si affollano le notazioni scientifiche. Il giovane e già maturo Dante si presente orgoglioso di
tutti i suoi atouts, ma così vuole anche far intendere che l'incontro con la giovanissima salvatrice non è
avvenuto sotto l'insegna del caso ma della necessità provvidenziale, secondo precisi ritmi e precisi rapporti
di causa ed effetto, e che la sua rievocazione e il suo effetto si svolgono sotto lo fedele consiglio della
ragione. A tale scopo si accalcano la notazione astronomica, quella fisiologica, il cavalcantiano balletto degli
spiriti, col quale Dante peraltro si situa esplicitamente ancora nell'ambito dello Stilnovo e del suo fondatore,
il primo amico Cavalcanti.
Si osserverà che la precisione cronologica, passibile di simbolismo, è tanto più notevole in contrasto con
l'assoluta genericità geografica che è sempre stata notata nell'opera; Dante si afferrerà alla geografia solo
nella Comedìa.
Solennità e tensione sono create anzitutto dalla scelta lessicale, che punta su distesi polisillabi, volentieri in
clausola: nascimento e girazione, maravigliare, nutrimento, sicurtade e imaginazione, segnoreggio e
segnoreggiare; fra questi prendono particolare spicco i superlativi, per lo più attribuiti a Beatrice:
nobilissimo e giovanissima, secretissima e gli avverbi lunghi in -mente.
Quando il lessico non abbia di per sé particolare spessore, lo acquista con le replicazioni, semplici o in
figura di poliptoto: del suo anno nono...del mio nono; cominciò a tremare... e tremando disse. E
l'apparizione di Beatrice è caratterizzata da un'inusuale catena floreale di aggettivi che svariano dal morale
al fisico: nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata.
La sintassi va nella stessa direzione di contenuta nobiltà, con periodi mai elementari ma nemmeno troppo
folti di subordinate: tra le quali è interessante vedere che dominano, dopo le ovvie relative, le consecutive,
cioè lo stesso tipo di secondaria che è così largamente diffuso nelle poesie stilnovistiche di Dante, a segnare
la necessaria consecuzione di una causa, l'azione della donna salvifica, e di un effetto in Dante stesso,
secondo un rapporto di tensione e distensione. Solennità è data anche dalla collocazione del verbo in fondo
alle frasi. Sicuri sono anche i collegamenti da periodo a periodo, con anafore, espressioni temporali, riprese
pronominali. Dante trasferisce formule e colori della poesia stilnovistica in un dettato molto più maturo e
articolato di un Novellino.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 3. Giovanni Boccaccio – Frate Cipolla e Guccio Imbratta
Frate Cipolla è uno dei tanti allegri mistificatori che popolano il Decameron come da una tradizione che
passa dai fabliaux medievali alla novellistica nostrana, ancor più interessati alla confezione della burla che ai
risultati pratici che se ne possono trarre; Boccaccio lo descrive icasticamente, come il suo doppio, quel servo
Guccio che di Cipolla è l'alter ego degradato. Cipolla è a suo modo un intellettuale, che sa parlare in rima,
solo diminuito dal fatto che le platee che imbonisce sono platee di sciocchi, e in quest'arte di circonvenire
folle di umili e sprovveduti è bene già un rappresentante in minore del classismo umanistico.
La storia della novella è nota, dunque veniamo al personaggio di Guccio, prima descritto dal suo padrone
con tutte le armi della retorica, poi visto in azione. La descrizione che fa frate Cipolla del suo servo
contempla la coniunctio relativa, tipica della sintassi boccacciana. L'essenza del brano è la compresenza di
uno stile elevato e ricercatissimo, dominato dall'amplificazione, dalla simmetria e dal lusso fonico, da una
intenzione giocosa e motteggiatrice che non smussa ma anzi esalta quella grande retorica. Dietro a Cipolla
sta più che mai Boccaccio. Qualcosa del tutto simile avviene al centro della magnifica descrizione di Guccio
in azione, al par. 7, che si estende per molte righe solo alla fine delle quali arriva la principale, e che
contiene, fra esplicite ed implicite, otto subordinate che a loro volta contengono incisi, ospitando un
leggiadro paragone letterario – cortese che per sovrammercato si svolge in un endecasillabo. Dunque, ancor
più evidentente di prima, qui la sontuosità sintattica e stilistica è adibita parodisticamente a materia bassa,
come sottolinea il paragone tra la vaghezza di Guccio di stare in cucina e quella dell'usignolo di stanziarsi
sui verdi rami, e inversamente la similitudine giocosamente macabra che assimila il suo calarsi dove sta la
Nuta all'avvoltoio che si getta sulla carogna. Il sublime d'en bas è vivamente sottolineato dalla
rappresentazione delle grazie della Nuta, prima con un paragone estremamente plebeo che ne deforma con
gioco espressionismo il seno debordante, poi con un accostamento fra il suo viso e la proverbiale bruttezza
dei Baronci, quindi con un'aggettivazione pertinente non più alla sua persona ma al suo mestiere, che
tuttavia ne accresce la repellenza. Scena di bettola, da poesia comico – realistica amplificata. Ma la forza di
questo passo sta anche forse e soprattutto in altro, nella costruzione a spirale discendente per cui le ampie
volute delle subordinate si concludono, dopo averla lungamente protratta con una serie di avvitamenti, nella
brevissima principale conclusiva che termina in un quinario aperto e chiuso da una parola ossitona
doppiamente idiografica.
È uno straordinario esempio di iconismo sintattico. Né il regime della sintassi cambia nei paragrafi
successivi, come è superfluo descrivere se non accennando al parimenti intricato periodare del paragrafo 8 e
anche del 9, che sta, ancora iconicamente, come figura dei rozzi raggiri verbali del servo. E le belle parole
sono messe in aperto contrasto col suo aspetto lercio, descritto con divertita abbondanza.
Lo stile periodido con tutti i suoi annessi, che comunque esprime anzitutto il signoresco dominio dell'artista
sulla materia, è in Boccacco ubiquo, e perciò non è esente da manierismo; tuttavia l'interdipendenza allusiva
di maestà sintattica e in genere stilistica e materia parodica o bassa e greve è la vera gloria dello scrittore, e
celebra in questo brano uno dei suoi massimi trionfi.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 4. Leon Battista Alberti – La buona moglie
Leon Battista Alberti è uno dei poliedrici uomini del Rinascimento che colpì intellettuali come Jakob
Burckhardt nell'Ottocento, quando la pratica della divisione e della specializzazione del lavoro era
ampiamente consolidata.
Il brano scelto appartiene al secondo libro del suo maggior trattato, intitolato De re uxoria. In un passo del
primo libro Alberti parla della prosa della sua opera giocando al ribasso, specie per quanto riguarda la
presentazione del suo scritto come specchio del parlato, ma nello stesso tempo coglie di sbieco qualche
carattere di questa prosa, come la vivacità del dialogato, l'improvviso delle interrogazioni (17) e la
commistione di elementi dotti, latini, ed elementi del parlato fiorentino: la ricetta del cosiddetto umanesimo
volgare, da lui infatti inaugurato. E in questo senso lo stile della Famiglia non è di natura diversa dalla
nobilitazione del volgare fiorentino proposta dall'Alberti nella sua snella Grammatica, la prima in Italia.
D'altra parte l'autore finge che il dialogo si sia svolto di recene fra alcuni “passati Alberti”, a beneficio
soprattutto dei “giovani Alberti”: è dunque un discorso della famiglia svolto all'interno della propria
famiglia; ma tutt'altro che a circuito interno. Il palazzi Rucellai a Firenze è il suo equivalente architettonico.
Così questo brano è punteggiato di latinismi anche rari: formosa, conzione, venustà, oppilazioni. Altrettanto
notevoli sono le coloriture del fiorentino vivo: truova, sanza, filosafi. E fresco, ricchissimo è soprattutto il
toscano in tensione con tecnicismi come frigidezza e oppilazioni, che presenta voci di attestazione unica o
rarissima: scialacquata, stomacoso, sbardellata, personata, brunetta, istesa. C'è dunque una icasticità e
inventività lessicale che come è noto si esprime soprattutto in quell'arte della derivazione che, in altri luoghi
del trattato, fa trovare all'Alberti deliziosi diminutivi o vezzeggiativi come tenerina, puerelli, cosellina,
sollazzosa, seccuccio, piagolina.
L'incontro tra modello latino e volgare fiorentino si può notare anche nella sintassi larga: a periodi ampi
come quello alle righe 22 e ss. si contrappongono brevi e secchi periodi nominali come 15, 17 e 34. La
retorica stessa, che tiene assieme il tutto, suona più colloquiale che dotta. Sono gradazioni semantiche
secondo coppie e terne: vezzi e gentilezza 8, modestia e nettezza 13, sbardellata e sporca 16 – 17, netta e
pulita 18.
Ci troviamo dunque di fronte ad una prosa che scaturisce intatta e viva da quella che è stata chiamata la crisi
linguistica del Quattrocento, e riesce a dover pochissimo ai modelli del Due – Trecento, il che significa però
che non avrà avvenire. La secolare sfortuna del Boiardo sta là a dimostrarlo.
Secondo l'etica familiaristica e misogina del tempo, le qualità, positive o negative, della donna, sono
rigorosamente subordinate alla funzione di procreatrice e massaia; della donna si auspica al massimo che
concordi col sentire del marito. Ciò non toglie che l'Alberti si faccia prendere piacevolmente la mano.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 5. Iacobo Sannazaro – Desolazione di Sincero e del mondo
Proprio con Sannazaro si metterà in moto un deciso avvio all'accoglimento della norma toscana sia nel verso
sia nella prosa. Mentre una prima redazione, che risale al penultimo decennio del secolo, ha ancora un forte
colorito napoletano, l'edizione definitiva, preparata dall'autore intorno al 1500 e pubblicata da Summonte nel
1504, è già vicina al toscano letterario. Il raffronto tra le due redazioni permette di esaminare a un preciso
traguardo non solo l'opera dello scrittore, ma in genere, le tendenze del suo tempo. Le tre componenti
principali (forme e vocaboli dialettali più o meno dirozzati; forme toscane letterarie attinte quasi tutte da
Petrarca e Boccaccio; voci latine) si presentano in ambedue le redazioni ma l'eliminazione delle forme
dialettali nella redazione definitiva fece sì che il Varchi lodasse l'autore per aver composto l'opera senza
essere mai stato a Firenze, lagnandosi solo di lievi trasgressioni.
In oggetto abbiamo il tredicesimo e ultimo capitolo, il commiato. L'amata è morta e il pastore Sincero,
Sannazaro stesso (come rivela il par. 5) si rivolge alla sua immaginaria zampogna. Il capitolo è un lungo,
inarrestabile compianto su sé medesimo, una variazione infinita sul tema del pianto. In cinque paragrafi,
separati da una tratta che dice come la vita, facendo cosmicamente eco al dolore personale, si sia ritirata
dagli abitanti tutti di Arcadia, vegetali, animali e umani, troviamo una lunga serie di riferimenti al pianto, in
chiave sinonimica e con termini e nozioni similari.
La forza e la finezza della prosa del Sannazaro sono mostrate benissimo dai paragrafi 6 e 7, che incarnano il
contrappunto universale, da fine del mondo, alla pena dello scrittore, che iniziano con frasi disposte
elegantemente a chiasmo (sono estinte / secchi sono; ruinato è / son tutte mutole) ma poi proseguono
sgranando tutti i soggetti del mondo un tempo florido e adesso inaridito (pastori, fiere, greggi, ecc...) per
raccogliere, infine, l'elencazione nella stretta finale che esplode nell'anafora totalizzante degli ogni che
esplicitano il totale annichilimento tramite un crescendo dei verbi.
Questa insistenza sulle replicazioni pure e sulle variazioni sinonimiche è accompagnata dal ripetersi di
moduli sintattici identici che nella moltiplicazione acquistano qui un colore funereo:
- ordine generalizzato attributo – sostantivo (superbe piazze, populose cittadi, dolorosa et inconsolabile vita)
di per sé magari semanticamente ridondanti però decisivi per la solennità e il ritmo.
- aggettivi di relazione: reali trombe, romani consuli
- participi che conservano il loro valore verbale: adombrati favori, rispondenti selve, lo incominciato mele
- frequenza delle coppie: infelice e denigrata sampogna, mesto e lamentevole suono
- latinismi: adombrati, buccine, inopinato, calamo, veracissimi, lutulenti.
- Superlativi: vanissime, efficacissima, crudelissime, veracissimi, abondantissime.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 6. Niccolò Machiavelli – Il prologo del Principe
Coerentemente con le posizioni espresse più tardi nel Discorso, il fiorentinissimo Machiavelli riempie il
Prologo del suo trattato di localismi, rifuggendo le forme letterarie: a re al posto di al re; el al posto di il
oppure e al posto di i; suto; acquistonsi. Sono assenti i latinismi, cosa spiegabile per il carattere non
retoricamente acceso ma logicamente freddo e aguzzo di queste righe proemiali, che non richiedono
infiorature e solennità. È un proemio paratattico, a frasi brevi e spigoli netti, ricchissimo di ripetizioni,
anafore, anadiplosi, epifore e poliptoti. Non si tratta di abbellimenti retorici ma di strette del ragionamento,
come mostra soprattutto la presenza di due anadiplosi a cavallo di periodi, quasi che il ragionamento
ripartisse con forza esattamente dal punto, e dal concetto, dove era arrivato. Il vigore logico delle
affermazioni guadagna precisamente dalla parsimonia delle parole usate, che lo fa diventare più
incontestabile e fatale.
Il carattere teorematico e del tutto generalizzante del procedere concettuale di Machiavelli è appena corretto
dai due exempla allegati di storia recente (Francesco Sforza e il re di Spagna a Napoli), facilmente
comprensibili e adattabili al caso, e la metaforica dello Stato intesto come corpo vivente e dunque tratta dal
corpo umano, non appare che nella parola membri. Sono invece due parole ad alto voltaggio categoriale –
fortuna e virtù – che avranno poi larga correlazione nell'opera. Ciò che più colpisce è il binarismo logico che
percorre da un capo all'altro il capitolo, la correlazione oppositiva o – o che non lascia spazio ad un terzo
elemento, riproducendosi per gemmazione da una coppia all'altra giù giù inesorabilmente. Quello che Luigi
Russo ha chiamato intelligentemente stile dilemmatico di Machiavelli.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 7. Niccolò Machiavelli – Tecnica dell'imbroglio
Tradizionalmente attribuita agli anni 1518 – 1520, la Mandragola è l'unica commedia fiorentina dei primi
due decenni del Cinquecento a non essere scritta “umanisticamente” in versi ma “realisticamente” in prosa,
come in prosa era già la versione machiavelliana dell'Andria. La trama della commedia è nota e il brano
riportato corrisponde alle scene VIII – IX del quarto atto. L'ambientazione di questa scena, e di tutta la
commedia, non è affatto generica come nella tradizione, ma inconfondibilmente fiorentina, e le fa da basso
continuo una lingua che a noi oggi può suonare quasi dialettale, tanto sono accentuati i suoi caratteri locali, e
dunque antiletterari, ben al di qua di un lessico e di una cascata di modi di dire spiccatamente fiorentineschi.
È anche su un'esperienza di questo tipo, compatta in tutta la commedia, che farà perno Machiavelli quando
sosterrà contro Trissino e Bembo la dignità del fiorentino d'uso come lingua nazionale. Vediamolo, allora,
questo fiorentino.
In ambito fonologico troviamo i vari truovi, cuoprigli, giuoco, oltre a boce e scarzo; in campo morfologico
si usa el come articolo maschile ed e' come suo plurale mentre tra le voci verbali troviamo di' (dici), sète
(siete), la desinenza -àn a interpretare la prima persona plurale dell'indicativo di prima coniugazione, la
desinenza -èn per il futuro, la desinenza -ssi per il congiuntivo imperfetto; in merito alla sintassi troviamo
l'accusativo al posto del genitivo (a casa [del] la madre), il periodo ipotetico con l'imperfetto indicativo sia in
protasi sia in apodosi (118).
Su questo sfondo comune si staglia però l'individualità delle singole voci, che paradossalmente emergono
pur in un notturno e in una scena dominata dal travestimento. Prima di tutti Nicia, che l'autore dipinge coi
toni tipici del vecchio stolto della commedia. Nella sua elementarità che non sa elevarsi sopra il linguaggio
della tribù, e nella sua presunta furbizia, è lui il titolare principe, oltre che dei fiorentinismi più accusati,
delle espressioni idiomatiche per lo più allusive e delle frasi proverbiali, nonché delle esclamazioni e delle
interrogazioni, per non parlare della corale scena IX, dove si rende protagonista di una lunga serie di moti di
paura, meraviglia, schifo affidati alle pure interiezioni e dell'iterazione balbettante del rigo 130. Questo
orditore di una beffa che poi si rivolgerà contro di lui, daprrima è incerto sul come condurrre la manovra, ma
poi, catturata la vittima e condotta a buon fine l'impresa, insiste non senza sadismo nel farlo legare stretto.
Colmo del comico che gli si ritorce contro è quando Nicia teme che il prigioniero possa essere qualche
vecchio debole o infermiccio, insomma inadatto all'impresa amorosa come lui!
All'oppostro troviamo Ligurio, interamente padrone di sé, si autoelegge capitano della giornata: ecco allora
tutte le espressioni militaresche ma anche quel gusto per le terne e le serie per lo più asindetiche e per le
simmetrie verbali, la cui eloquenza indica padronanza della situazione ma insieme distanza da essa, e che in
realtà gli appartengono in tutta la pièce. Promosso motu proprio a regista dell'impresa, il sensale si atteggia a
intellettuale, e forse non è un caso che nella nostra scena cadano solo nelle sue battute latinismi grafico –
fonetici del tipo exercito, examina.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 8. Giorgio Vasari – Il Giudizio Universale di Michelangelo
Il brano commentato è ricavato dalla Torrentiniana del 1550 e non dalla Giuntina del 1568, essendo ormai
riconosciuta la maggiore pregnanza stilistica della prima rispetto alla seconda. Vasari in questo brano
descrive quasi in presa diretta (l'affresco fu reso per la prima volta visibile il 31 ottobre del 1541) il Giudizio
inaugurando, o meglio inventando, ciò che della critica d'arte è il momento più specifico, la descrizione o
ecfrasis e in generale quelle che Longhi chiamerà le equivalenze verbali del linguaggio figurativo. Ora è ben
vero che l'ecfrasis comporta per sua natura la frammentazione per segmenti successivi e come per
progressivi riconoscimenti dell'unità dell'opera, ma è particolarmente in Vasari che essa si snoda per serie e
agglomerazioni di particolari, quasi ripartendo ogni volta da zero piuttosto che per quadri d'assieme, senza
timore di ripetere le segnalazioni deittiche. A questa serialità diffusa si subordinano gli elenchi brevi e le
replicazioni variate, spesso in forma di figure etimologiche (vincitore – vincere, difficilmente – facilità,
peccatori – peccato, uomo – uomini). Il Vasari scrittore è stato autorevolmente definito manierista, ma
intendiamolo come equivalente del primo manierismo, non del secondo, cui apparteneva come pittore. Di
fatto questa attitudine stilistica emerge prima di tutto dalla sintassi del periodo e diremmo dal modo di
condurla: tendenzialmente larga, con eventuali contrapposti di periodi brevi, spesso monofrasali; una
sintassi caratterizzata dall'insistente collocazione in coda, con effetto nobilitante, dei verbi. Ma se molte
volte il legame tra l'uno e l'altro periodo, o fra le parti di questo, è esplicito e razionale, in vari altri casi
qualcosa si rompe e i legamenti divengono intuitivi e poco grammaticali.
Frequenti, anche se contenuti, sono i toscanismi, di vario genere: faccendo, banda, resurressione, avendogli.
Diciamo che il manierismo vasariano non è, come è stato detto, il prodotto di un omo sanza lettere, e tuttavia
poggia su una grande libertà linguistica. Quello che rende attraente e affabile la prosa di Vasari è appunto la
compresenza di grammaticale e agrammaticale, di costruito e di improvvisato, di connesso e sconnesso, di
ragionato e di emotivo.
La stupefatta ammirazione dell'autore per l'affresco è espressa soprattutto con termini ed espressioni
superlativanti che indicano da un lato bellezza suprema e dall'altro meraviglia per l'ampiezza quasi
incalcolabile e la ricchezza di figure dell'opera. È notevole l'intreccio di bellezza e terrore che Vasari
individua.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 9. Francesco Guicciardini – La storia e lo storico
L'inizio dell'opera è costituita da una ventina di righe, divise in due ampi periodi quasi equipollenti, legati da
una subordinata, la cosiddetta coniunctio relativa, cara a Guicciardini come lo era stata già a Boccaccio. Si
tratta in realtà di un unico periodo, smisurato quanto audace, che proprio per questo ha bisogno di una
punteggiatura medio – forte che ne pausi il corso, rendendolo insieme più maestoso; è palese la volontà
guicciardiniana di abbracciare unitariamente con la mente l'infinita varietà delle vicende umane.È un brano
chiaramente ricco di subordinate: temporali, causali e soprattutto consecutive, vera e propria ossessione del
Guicciardini, inteso sempre a comprendere le ragioni dei fatti o casi della storia, e dunque a giudicarli. Ma
ancor più caratteristico è come le subordinate esplicite, con tratto stilistico tipico dello storico, ne
contengano in sé a scatola cinese delle implicite. Il periodo è dunque è costruito con una precisa
impostazione gerarchica, che gradua e subordina l'uno all'altro i fatti secondo la loro importanza oggettiva e
soggettiva: si guardu soprattutto il finale, dove il quando è seguito da tre gerundive coordinate, l'ultima delle
quali contiene una participiale, per sboccare finalmente nella frase verbale conclusiva che gli si riferisce, a
sua volta però specificata e rallentata da due complementi di causa in alternativa: il tutto abitato anche da
simmetrie entro la spirale. Una lingua fondamentalmente lineare come l'italiano diventa in Guicciardini una
lingua tutta sospensioni, cunei e dilazioni.È un brano povero di colori retorici, al massimo ricco di polisillabi
e forme superlativanti, che nello spazio breve ripetono l'estensione che domina la costruzione sintattica. C'è
una complicata e grandiosa tragicità degli eventi, l'abbraccio dello storico che li ordina e li giudica. Ne ho
già indicato alcune conseguenze stilistiche, o meglio sintattiche. Ora se ne possono segnalare altre due. La
prima è l'intrusione nel narrato delle considerazioni e sentenze dell'autore (evidentemente apparirà); la
seconda è la tendenza quasi maniacale a distinguere, in obbedienza al principio antimachiavelliano, centrale
nei Ricordi, della discrezione (nel senso etimologico di distinguere): varietà e grandezza, empietà e
sceleratezze, tanto vari e tanto gravi, o errori vani o le cupidità presenti, o per poca prudenza o per troppa
ambizione. Non c'è nulla, negli accadimenti e nelle loro cause, che per Guicciardini sia univoco e semplice.
E forse il minimo comune denominatore fra i fenomeni che abbiamo censito è la ramificazione, dell'uno in
due, dei pochi in molti, dei periodi che si dilatano comprendendo in sé più frasi possibili, della linearità che
s'inverte o accoglie incastri. In altri termini, se Machiavelli tende a far di due uno, Guicciardini fa dell'uno
due; e se le disgiunzioni del primo sono dilemmatiche, quelle dell'altro sono distintive e sfumanti, non
semplificano ma registrano la complicatezza del mondo e della storia.Lo sguardo dello storico è tutto volto a
dominare razionalmente la propria materia: così subito, sempre alla latina e nella forma rilevata
dell'apposizione, isolata dalla virgola, alle rr. 3 – 4. Eppure c'è un punto in cui occhio dello storico e materia
tendono a coincidere, ed è l'infinita plasticità di quella mente con l'infinita e aggrovigliata varietà dei fatti.E
fin da questo paragrafo della Storia d'Italia appare qualcosa che caratterizza la logica dello storico non meno
della sua volontà artistica. Questo periodo è, da un lato, complessivamente quadrato, ma dall'altro è, come
per successivi cerchi concentrici, avvolgente (cfr. il rapporto tra perturbarla e turbazioni), come se si
incontrassero già nella sua fisionomia, dispersione delle cose e capacità regolatrice della mente. Ma non
solo: Guicciardini si appresta a narrare con un attacco superbo, Io, che peraltro potrebbe anche richiamare
quella civiltà fiorentina dei Ricordi in cui egli era nato: ma a guardar bene in quell'incipit solenne affiora
qualcosa che ci sorprende non meno dell'opposizione tra nostra vita e mi ritrovai nel portico della
Commedia dantesca, giustamente rilevata e interpretata da Singleton, ed è la compresenza di Io e di nostra,
nostri. Dunque lo storico assume su di sé una pluralità di esperienze sovrapersonali a lui vicine e le ordina e
interpreta secondo la discrezione (sempre senso etimologico) sua individuale: non è altro che il salto dai
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
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